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giovedì 28 ottobre 2010

energia solare: Fra vent'anni la prima centrale solare spaziale della Terra. L'annuncio della giapponese Jaxa


Onde radio e laser per inviare l'energia ricavata dal Sole

Il conto alla rovescia è iniziato. Nel giro di 20 anni, soldi permettendo, la Terra avrà una centrale solare spaziale. Si tratta di 4.000 m2 di pannelli fotovoltaici orbitanti a 36.000 km dalla Terra, capaci di inviarci grandi quantità d'energia pulita. L'ha annunciato l'agenzia spaziale giapponese, la Jaxa. E già nel 2020 la società spaziale europea Eads Astrium 2 conta di lanciarne una più piccola. L'idea, fantascientifica per l'epoca, era stata lanciata da un ingegnere Usa, Peter Glaser, nel 1973, riferisce "Focus" che anticipa, passo per passo, la strada che potrebbe portare ad un'energia pulita con centrali costruite nello spazio.

Spinta dalla crisi petrolifera, nel 1979 la Nasa, ricorda il periodico scientifico, aveva investito 50 milioni di dollari per studiare un progetto fattibile. Ma 20 anni dopo aveva gettato la spugna: troppi problemi tecnici da risolvere, e soprattutto troppi gli investimenti (275 miliardi di dollari dell'epoca) necessari per realizzarlo. Ora però torna in auge, grazie a nuovi progressi scientifici, al bisogno di puntare sulle energie verdi per abbattere le emissioni di CO2 e ad una nuova crisi energetica che rischia di profilarsi all'orizzonte.

Nello spazio, infatti, l'energia del Sole (1.371 watt/m2) è molto più abbondante che sulla Terra (170 W/m2), dato che la luce non è filtrata dall'atmosfera e dalle nuvole. E questa abbondanza fa gola a molti. Tanto più che "i limiti tecnologici di 40 anni fa non esistono più" sottolinea John Mankins, ex responsabile del progetto solare spaziale della Nasa e fondatore di una società di ingegneria, la Managed Energy Technology. Mandare nello spazio un'enorme struttura ricoperta di pannelli solari su un'orbita geostazionaria, cioé in sincronia con la rotazione della Terra, non è certo un problema. Ma come inviare sulla Terra l'energia ricavata dal Sole?

La tecnologia, spiega il periodico di Gruner+Jahr-Mondadori, ha trovato due soluzioni: le onde radio e il laser. Ciascuna presenta vantaggi, ma anche svantaggi. La prima possibile soluzione, prospettata a suo tempo dallo stesso Glaser, consiste nella conversione dell'energia solare in onde radio della lunghezza di 15 cm (pressappoco la stessa generata da un forno a microonde), in grado di attraversare le nuvole e alimentare tutte le aree del mondo a ogni latitudine.

Questo tipo di impianto, con una massa di 10.000 tonnellate e una superficie di 4.000 m2, prevede due grandi collettori a specchio, capaci di catturare la luce solare e dirigerla verso una piattaforma circolare del diametro di 1 km.

Da qui, sul lato opposto, alcune celle solari convertiranno l'energia luminosa in elettricità, trasformandola poi, attraverso antenne, in un fascio di microonde. Una volta trasmesse a Terra, queste onde saranno raccolte da altre antenne e distribuite ai consumatori finali. Un sogno azzardato? Tutt'altro. Proprio Mankins, nel 2008, è riuscito a stabilire il record mondiale di trasmissione d'energia con le microonde: ha inviato 20 watt di energia fra due isole delle Hawaii distanti 148 km. L'esperimento prova che è possibile trasmettere l'energia solare attraverso l'atmosfera. Ma nelle centrali solari spaziali sono in gioco ben altre proporzioni.

Per inviare miliardi di watt, occorre l'impiego di antenne enormi nello spazio (1 km di diametro) e ricevitori ancor più grandi sulla Terra (10 km di diametro). Difficile, quindi, testarne gradualmente la tecnologia con simulatori di piccola taglia. Ecco perché appare più promettente l'altra soluzione: il laser. Che, con una lunghezza d'onda 100.000 volte più piccola, fino a 1,5 micrometri (millesimi di millimetro), non necessita di antenne smisurate. Proprio in questo sta la forza del secondo modello di stazione solare spaziale: convertire l'energia del Sole, una volta catturata dai pannelli orbitanti, in un fascio laser a infrarossi.

Questo metodo avrebbe, poi, altri vantaggi non da poco: il suo funzionamento può essere testato in laboratorio, a un costo relativamente basso e senza rischi; e adattare i pannelli fotovoltaici terrestri alla ricezione di un'unica lunghezza d'onda, e non di tutto lo spettro visibile, ne aumenta l'efficienza limitando la dispersione di energia.

La tecnologia è già disponibile, afferma Stephen Sweeney, ricercatore dell'Università britannica di Surrey e partner del gruppo Eads Astrium: il telescopio spaziale Herschel (lanciato nel 2009 proprio dalla Astrium) ha uno specchio di 3,5 m di diametro, capace di focalizzare il laser e inviarlo fino a Terra. Dove basterà installare altri pannelli fotovoltaici per riceverlo e ritrasformarlo in elettricità. "L'obiettivo è di arrivare all'80% di rendimento delle celle fotovoltaiche, contro il 40% oggi raggiunto dai migliori laboratori mondiali" afferma Sweeney. Purtroppo, però, la luce a infrarossi presenta un difetto non trascurabile: oltrepassa difficilmente le nuvole.

L'energia della centrale solare spaziale, dunque, dovrebbe essere inviata verso latitudini terrestri con un cielo sempre limpido. In ogni caso, sottolinea Mankins, la centrale solare spaziale non è più un'utopia, grazie a 3 fattori recenti: l'efficienza delle celle fotovoltaiche, quadruplicata rispetto agli anni '70; i progressi nella tecnologia laser e nella trasmissione elettrica; robot capaci di eseguire buona parte dei lavori di costruzione. Ma ben più difficile da superare, avverte "Focus", è la barriera dei costi.

Lanciare oggetti in orbita geostazionaria costa 4 euro al grammo. Dato che la massa della centrale energetica spaziale sfiora le 10.000 tonnellate (35 volte la Stazione spaziale internazionale) il suo costo arriva a 40 miliardi di euro.

Uno studio realizzato nel 2004 per il Centro aerospaziale tedesco (Dlr) ha calcolato che una centrale laser da 22 gigawatt costerebbe 120 miliardi: 5,5 miliardi a GW contro gli 1,5 a GW del nucleare: ma l'investimento spaziale si ammortizzerebbe in 30 anni e non avrebbe i costi di stoccaggio delle scorie nucleari. "L'unica via d'uscita sono grandi stanziamenti pubblici" propone Martin Hoffert, docente di fisica all'Università di New York. Altrimenti resteremo schiavi del petrolio e dei suoi dannosi effetti collaterali. E sempre finchè ce ne sarà.

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