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domenica 14 giugno 2020

centrale nucleare di Gravelines: rischio esplosioni di origini esterne



La principale centrale nucleare europea a rischio "esplosioni di origini esterne" „principale centrale nucleare europea, che si trova nel nord della Francia, deve proteggere meglio i suoi reattori che sono a rischio per cause esterne e devono essere resi "in grado di far fronte a un'esplosione esterna ad alta intensità" che non è da escludere.

É stata la stessa autorità francese di sicurezza nucleare (Asn) ad avvertire la EDF Energy che gestisce l'impianto di Gravelines del fatto che un potenziale incendio al vicino terminal del gas di Dunkerque, o su una nave che trasportava gas in mare nelle vicinanze, potrebbe compromettere i meccanismi di raffreddamento della centrale nucleare, portare al suo surriscaldamento e scatenare un disastro.“

La principale centrale nucleare europea a rischio "esplosioni di origini esterne"

Un avvertimento del genere era già stato fatto nel 2015 ma è stato nel febbraio scorso che le autorità di controllo hanno ricevuto un altro campanello d'allarme. Allora sono infatti stati scoperti problemi con i tamburi che filtrano l'acqua di mare utilizzata per raffreddare i reattori. La Edf ha assicurato che gli aggiornamenti della struttura, fatti dopo il disastro di Fukushima del 2011, includevano un meccanismo per ristabilire il flusso di acqua fredda entro 24 ore da un eventuale incidente, ma la Ans ha risposto che la messa in atto della misura di emergenza a risposta rapida non era mai stata dimostrata.


Già  il 16.12.2010 la  centrale nucleare di Gravelines ha segnalato all'autorità di sicurezza nucleare (ASN) un incidente di livello 1 su una scala internazionale che ne comporta sette . Questo incidente è accaduto lunedì durante i test periodici per provare la disponibilità ed il buon funzionamento di materiali importanti per la sicurezza delle installazioni.


lunedì 11 maggio 2020

Coronavirus: covid-19 e plasma terapia

La terapia a base di plasma dei guariti per il trattamento dell'infezione Covid-19 è sotto i riflettori e continua ad accendere grandi speranze in attesa dei risultati delle sperimentazioni in corso anche in Italia. Il ministero della Salute però avverte che "non è ancora un trattamento consolidato, perché non sono ancora disponibili evidenze scientifiche robuste" ma, parallelamente, si pensa già alla messa a punto di un possibile farmaco basato sul plasma e prodotto su scala industriale.


Cos'è il plasma e quando è  stato usato per curare - Il plasma è la parte più "liquida" del sangue ed è composto da acqua, proteine, nutrienti ed ormoni. Ma soprattutto contiene una quota di anticorpi che si sono formati dopo la guarigione dal virus i cosiddetti anticorpi "neutralizzanti". Usare il plasma di un paziente guarito per un curare un malato è una tecnica che viene utilizzata da oltre 30 anni. Anche nelle due epidemie da coronavirus, la Sars del 2002 e la Mers del 2012 è stata adoperata con successo.

Come funziona - La terapia con plasma da convalescenti prevede il prelievo del plasma da persone guarite dal Covid-19 e la sua successiva somministrazione (dopo una serie di test di laboratorio, anche per quantizzare i livelli di anticorpi “neutralizzanti”, e procedure volte a garantirne il più elevato livello di sicurezza per il ricevente) a pazienti affetti da Covid-19 come mezzo per trasferire questi anticorpi anti-SARS-Cov-2, sviluppati dai pazienti guariti, a quelli con infezione in atto. Gli anticorpi (immunoglobuline) sono proteine coinvolte nella risposta immunitaria che vengono prodotte dai linfociti B in risposta ad una infezione e ‘aiutano’ il paziente a combattere l’agente patogeno (ad esempio un virus) andandosi a legare ad esso e “neutralizzandolo”. Tale meccanismo d’azione si pensa possa essere efficace nei confronti del SARS-COV-2, favorendo il miglioramento delle condizioni cliniche e la guarigione dei pazienti.



Uno studio toscano sulla plasmaterapia diventa capofila della sperimentazione nazionale per la cura di Covid-19. Su indicazione del ministero della Salute, Aifa (Agenzia italiana del farmaco) e Iss (Istituto superiore di sanità) hanno deciso di proporre la sperimentazione della plasmaterapia con siero iperimmune da donatori convalescenti su tutto il territorio nazionale.
E il protocollo toscano "Tsunami" (acronimo di TranSfUsion of coNvaleScent plAsma for the treatment of severe pneuMonIa due to SARS.CoV2), che già aveva raccolto l'adesione di Lazio, Campania, Marche e Umbria, oltreché della Sanità Militare, è stato scelto quale modello metodologico di riferimento per il nuovo studio, riferiscono dalla Regione Toscana.
 L'Iss, in collaborazione con Francesco Menichetti, direttore di Malattie infettive dell'Azienda ospedaliero universitaria di Pisa, che sarà principal investigator anche della sperimentazione nazionale, sta definendo gli interventi necessari. "La Regione Toscana - è il commento del presidente Enrico Rossi - si è impegnata tempestivamente e su più fronti per fronteggiare il Covid-19: disponibilità adeguata di posti letto in area medica e in terapia intensiva, disponibilità dei test diagnostici molecolari e sierologici su tutto il territorio, interventi della sanità territoriale per cure dispensate a domicilio, ma anche intervento diretto della sanità pubblica nella gestione delle Rsa private e distribuzione di mascherine a titolo gratuito per tutti i cittadini, rappresentano i cardini di un intervento a tutto campo, che ha saputo anche cogliere e supportare la ricerca di qualità promossa dai professionisti che operano nelle strutture pubbliche. E' il caso della sperimentazione della plasmaterapia che si sta conducendo a Pisa e che contribuisce ad aumentare le possibilità di cura per i pazienti critici". (segue) "Il Servizio sanitario toscano conferma non solo la sua capacità di rispondere prontamente all'emergenza pandemica - dice l'assessore al Diritto alla salute Stefania Saccardi - ma anche di saper sostenere e tutelare la ricerca scientifica, indispensabile per garantire l'elevata qualità delle prestazioni assistenziali."Tsunami" è un buon esempio di collaborazione armonica tra la rete toscana dei centri trasfusionali e i clinici di area Covid-19, che non a caso trova riconoscimento al più alto livello. Importante come sempre la sinergia con le associazioni di volontariato e il coordinamento del Centro regionale sangue, per una corretta informazione dell'opinione pubblica e la sensibilizzazione dei potenziali donatori". La sperimentazione nazionale riceverà la validazione di Aifa e l'approvazione da parte del Comitato etico dell'Inmi Spallanzani di Roma, che sarà utilizzabile da tutti i centri aderenti. Di rilievo, in accordo con il recente decreto legge specifico, il fatto che la sperimentazione non richiederà che vengano stipulati contratti di assicurazione locali specifici. Menichetti si è dichiarato orgoglioso della scelta operata da Aifa e Iss, che conferma la qualità della ricerca scientifica toscana, e soddisfatto della possibilità per tutti i centri già aderenti a Tsunami di continuare il loro impegno nel quadro della sperimentazione nazionale. L'arruolamento dei primi pazienti guariti che si erano resi disponibili per la donazione di plasma è già partito un mese fa, dall'11 aprile scorso.

venerdì 1 maggio 2020

Covid-19: Chi guarisce diventa immune


RIcerca di un'università cinese pubblicata su Nature: il 100% dei pazienti sviluppa anticorpi, il vaccino può funzionare.


"Il 100% dei pazienti è risultato positivo all'immunoglobulina G (IgG) antivirale".

Sono questi i risultati messi nero su bianco su Nature Medicine da un gruppo di ricercatori cinesi che hanno esaminato un campione di 285 pazienti affetti da Covid-19.
Chi guarisce dal Covid-19 sviluppa sempre gli anticorpi protettivi al virus. La conferma arriva da uno studio della Chongqing Medical University, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, che ha rilevato nel 100% dei pazienti analizzati (285) la presenza degli anticorpi IgG, cioè quelli prodotti durante la prima infezione e che proteggono a lungo termine. Ciò significa che il test sierologico può essere utile per diagnosticare i pazienti sospetti, risultati negativi al tampone, e identificare quelli asintomatici. Finora non era chiaro se la risposta degli anticorpi al virus SarsCov2 durasse nel tempo e se il test sierologico potesse essere utile. In questa ricerca, guidata da Ai-Long Huang, si è visto che tutti i 285 pazienti studiati avevano sviluppato gli anticorpi specifici per il virus dopo circa 17-19 giorni dalla comparsa dei sintomi, mentre quelli con gli anticorpi IgM (quelli cioè che si attivano subito quando l'organismo entra in contatto con una nuova infezione, dando una protezione di breve durata) erano il 94,1%, dopo 20-22 giorni dall'inizio dei sintomi. Nelle prime 3 settimane dalla comparsa dei sintomi, c'è stato dunque un aumento di entrambi i tipi di anticorpi, anche se quelli IgM hanno mostrato un lieve calo nella terza settimana. Non sono stati invece trovati legami tra le caratteristiche cliniche di ogni malato e il diverso livello di anticorpi. Lo studio ha dimostrato inoltre l'utilità del test sierologico come metodo di sorveglianza su un gruppo di 164 contatti stretti dei pazienti positivi al Covid-19. Di queste persone, 16 erano risultate positive al tampone, di cui tre asintomatiche. Le altre 148 erano negative al tampone e non avevano sintomi. L'esame sierologico per gli anticorpi è stato fatto 30 giorni dopo l'esposizione al virus. Sedici persone positive al tampone avevano tutte gli anticorpi, mentre 7 dei 148 negativi al tampone avevano gli anticorpi specifici per il virus: ciò significa che il 4,3% dei contatti stretti era sfuggito al tampone. Inoltre, 10 dei 164 contatti stretti di chi aveva gli anticorpi, era asintomatico. Tuttavia, avvertono gli studiosi, il lavoro presenta alcune limitazioni: non è stato fatto il test per rilevare le attività degli anticorpi IgG nel neutralizzare il virus, e inoltre il campione di pazienti in gravi condizioni studiato è piccolo. Il tampone rimane efficace per confermare precocemente l'infezione, ma l'esame degli anticorpi può essere importante come complemento per la diagnosi dei casi sospetti negativi al tampone, e nel sorvegliare le persone entrate in contatto con i malati ma asintomatici.


In Italia 
Coronavirus, il virologo Roberto Burioni annuncia su Twitter quella che ritiene essere una buona notizia: «Il 100% dei pazienti sviluppa anticorpi e questo promette bene per l'immunità». «Seppure in quantità variabili, i pazienti guariti da Covid-19 producono anticorpi contro il virus. Questo è bene perché rende affidabile la diagnosi sierologica e, se gli anticorpi fossero proteggenti, promette bene per l'immunità».

lunedì 27 aprile 2020

Gorilla: uccisi ranger che proteggono il parco




È uno dei giorni più bui nella storia quasi centenaria del Parco Nazionale congolese di Virunga, una delle ultime oasi al mondo per i gorilla di montagna.

Venerdì mattina sono state uccise 19 persone a una quarantina di chilometri da Goma, capoluogo della provincia del Nord-Kivu. Tra le vittime, almeno 13 erano ranger del parco del Virunga, il più antico di tutta l’Africa, noto durante il colonialismo belga con il nome di parco nazionale Albert. Nel Kivu settentrionale é scoppiata la decima epidemia di ebola, non ancora debellata e nonostante ciò è teatro da continue incursioni di milizie di diverse estrazioni. 

Venerdì mattina una sessantina di uomini armati ha attaccato un convoglio che porta regolarmente cibo da Goma a Rumangabo. I ranger del parco erano addetti alla sicurezza e alla difesa della carovana di veicoli. Per questo lavoro extra i guardiani ricevono 250 dollari mensili dagli abitanti dei villaggi lungo il percorso. La direzione dell’ICCN chiude un occhio e acconsente per non inimicarsi ulteriormente i residenti che in varie occasioni hanno accusato i responsabili del Virunga di sconfinamento e devastare le coltivazioni. Le comunità confinanti con la riserva naturale sono stati coinvolti in diversi programmi di cooperazione economica, per esempio micro credito e progetti di distribuzione  di corrente idroelettrica.

Bracconaggio e sfruttamento

 Uccidono gli animali per l'avorio, disboscano per la carbonella, pescano illegalmente. Un giro d'affari da 200 milioni di dollari le cui e le prossime mire sono oro e petrolio di cui il parco di Virunga è ricco. I circa 700 ranger difendono non solo animali e vegetazione presenti nel Parco, ma anche i circa 5 milioni di congolesi che vivono nelle aree circostanti, spesso vittime di violenze da parte delle milizie. Anche per questo, i guardiaparco, stanno pagando un prezzo altissimo. Negli ultimi vent'anni ne sono stati uccisi 176 e dopo l'ultimo attacco il bilancio è salito a 188, quasi uno al mese. Per anni la popolazione locale, affamata dopo anni di guerre e dimenticata dal governo di Kinshasa, si è schierata contro il lavoro dei ranger, accusati di lottare per la conservazione di un Parco che toglie terra coltivabile. Le cose sono cambiate dopo che il direttore di Virunga, insieme ai ranger, e grazie a finanziamenti internazionali, ha portato la luce nei villaggi con la costruzione di centrali idroelettriche, sfruttando l'enorme quantità d'acqua presente nel parco. L'ultima sarà terminata quest'anno e dovrebbe garantire 60mila posti di lavoro

Chiuso per Covid
 Un tempo sogno proibito di turisti e avventurieri pronti a tutto pur di vedere gli ultimi gorilla di montagna, negli ultimi anni il numero di visite all'interno del parco è crollato e di conseguenza i ricavi, cruciali per le politiche di conservazione e per la sicurezza dei ranger. L'aumento degli scontri tra milizie, il rapimento di due turisti britannici, poi rilasciati, l'epidemia di Ebola in corso dall'agosto del 2018 ed, infine, il coronavirus hanno tenuto il parco più chiuso che aperto negli ultimi due anni. Dal 18 marzo la Direzione ha deciso di vietare l'ingresso ai turisti per evitare che i primati si potessero contagiare. Un rischio troppo grande visto che, in tutto il parco di Virunga, sono rimasti solo 604 gorilla di montagna su un totale complessivo di 1.063. Il budget annuale è pari a 8 milioni di dollari, ma ne servirebbero molti di più, anche perché il governo congolese contribuisce solo con il 5%. Senza gli aiuti dell'Unione Europea, degli Stati Uniti e di associazioni filantropiche il Parco di Virunga sarebbe già in mano alle milizie con il rischio di perdere per sempre uno dei più ricchi ecosistemi d'Africa.


venerdì 24 aprile 2020

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Fumare protegge dal Covid? In Francia studio con tamponi alla nicotina


L'ipotesi nasce dalla bassa percentuali di fumatori su campione di 350 ricoverati: solo il 5%. Per verificarla l’ospedale parigino La Pitié Salpêtrière condurrà test con cerotti alla nicotina. Esperto del Cnr: pericoloso anche solo evocare questa possibilità.

La nicotina potrebbe avere un effetto protettivo dall’infezione di nuovo coronavirus: questa l’ipotesi alla base di studi preventivi e terapeutici che saranno presto lanciati dall’ospedale parigino di La Pitié Salpêtrière e che stravolge le convinzioni scientifiche sostenute dalla maggior parte dei virologi secondo cui fumo e obesità sono i fattori che aumentano la letalità del Covid-19. Lo riferisce l’agenzia France Presse precisando che i test saranno effettuati con cerotti alla nicotina. Ad aver spinto gli studiosi ad approfondire l’ipotesi, il fatto che tra i pazienti ricoverati per Covid-19 in vari ospedali nel mondo ci fosse un numero ridotto di fumatori abitudinari. Prime ricerche già svolte, non ultima quella realizzata in Francia su 350 pazienti ricoverati e 150 che hanno consultato il proprio medico, tutti positivi al Covid-19, “solo il 5% erano dei fumatori” ha detto all’Afp Zahir Amoura, professore di medicina interna e autore della ricerca in questione. Dopo il via libera definitivo ai test da parte del ministero della Salute francese, il team di Amoura applicherà patch alla nicotina con dosaggi diversi e con tre modalità diverse: preventiva per capire se possono funzionare per proteggere il personale medico-sanitario; terapeutica su pazienti ricoverati per cercare di diminuire la sintomatologia e sui pazienti gravi in rianimazione. Sempre secondo il neurobiologo francese, i pazienti fumatori ricoverati rischiano il deteriorarsi delle condizioni di salute a causa dello stop obbligato e immediato all’assunzione di tabacco: un effetto che sarà verificato durante lo stesso studio. La congettura dei ricercatori francesi va in direzione opposta rispetto a precedenti anamnesi e studi clinici che finora hanno indicato nel fumo un fattore di rischio aumentato di fronte al virus, alla stregua dell’obesità. Negli Usa si è fatto riferimento diretto a questi due fattori per spiegare l’alta percentuale di afroamericani contagiati rispetto ai Wasp. Numeri alla mano, “tra i fumatori ci sarebbe 80% di pazienti Covid-19 in meno rispetto al resto della popolazione generale dello stesso sesso e della stessa età” ha sottolineato Amoura, neurobiologo di fama mondiale, esperto dei recettori della nicotina, la cui ultima ricerca è stata pubblica sui Comptes Rendus de Biologie dell’Accademia delle Scienze, di cui fa parte. “L’ipotesi è che fissandosi sul recettore cellulare utilizzato anche dal coronavirus, la nicotina gli impedisca o lo trattenga dal fissarsi, bloccando così la sua penetrazione nelle cellule e il suo propagarsi in tutto l’organismo” secondo Jean-Pierre Changeux, membro dell’Istituto Pasteur e del Collège de France. I ricercatori ipotizzano che il “recettore nicotinico dell’acetilcolina” abbia un ruolo centrale nel propagarsi del coronavirus e sia all’origine della varietà di sintomi del Covid-19, tra cui la perdita dell’olfatto e disturbi neurologici. "È pericoloso anche solo ventilare che una pessima abitudine, come il vizio del fumo, possa aiutare a fronteggiare quella che oggi è la principale emergenza epidemica", ha detto all'AGI Giovanni Maga, il direttore dell'Istituto di Genetica Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pavia. "Questa ipotesi non tiene conto di diversi fattori fondamentali", dice l'esperto. "Il primo è che che chi fuma è più soggetto a patologie cardiovascolari e respiratorie che aggravano la patologia; e il secondo fattore è che fumare è la principale causa di tumori al polmone", aggiunge, invitando a fare attenzione nel trarre conclusioni che possono rivelarsi dannose.

Coronavirus è trasportato dal particolato atmosferico





Possibile “indicatore” precoce di future recidive dell’epidemia da Covid-19. Studio effettuato da Sima,  ricercatori dell'Università di Bari, Bologna e Trieste, e dell’ateneo di Napoli “Federico II”


 A poco più di un mese dalla pubblicazione di un Position Paper sulla "Valutazione della potenziale relazione tra l'inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione dell'epidemia da Covid-19", la Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) annuncia che il coronavirus SARS-Cov-2 è stato ritrovato sul particolato (PM). "Questa prima prova apre la possibilità di testare la presenza del virus sul particolato atmosferico delle nostre città nei prossimi mesi come indicatore per rilevare precocemente la ricomparsa del coronavirus e adottare adeguate misure preventive prima dell'inizio di una nuova epidemia", anticipa il professor Alessandro Miani, presidente della Sima.

"I campioni sono stati analizzati dall’Università di Trieste in collaborazione con i laboratori dell’azienda ospedaliera Giuliano Isontina, che hanno verificato la presenza del virus in almeno 8 delle 22 giornate prese in esame. I risultati positivi sono stati confermati su 12 diversi campioni per tutti e tre i marcatori molecolari, vale a dire il gene E, il gene N ed il gene RdRP, quest'ultimo altamente specifico per la presenza dell'RNA virale SARS-CoV-2. Possiamo confermare di aver ragionevolmente dimostrato la presenza di RNA virale del SARS-CoV-2 sul particolato atmosferico rilevando la presenza di geni altamente specifici, utilizzati come marcatori molecolari del virus, in due analisi genetiche parallele”4, precisa Setti. Secondo De Gennaro, “questa è la prima prova che l'RNA del SARS-CoV-2 può essere presente sul particolato in aria ambiente, suggerendo così che, in condizioni di stabilità atmosferica e alte concentrazioni di PM, le micro-goccioline infettate contenenti il coronavirus SARS-CoV-2 possano stabilizzarsi sulle particelle per creare dei cluster col particolato, aumentando la persistenza del virus nell'atmosfera come già ipotizzato sulla base di recenti ricerche internazionali. L’individuazione del virus sulle polveri potrebbe essere anche un buon marker per verificarne la diffusione negli ambienti indoor come ospedali, uffici e locali aperti al pubblico. Le ricerche hanno ormai chiarito che le goccioline di saliva potenzialmente infette possono raggiungere distanze anche di 7 o 10 metri, imponendoci quindi di utilizzare per precauzione le mascherine facciali in tutti gli ambienti”. “La prova che l'RNA del SARS-CoV-2 può essere presente sul particolato in aria ambiente non attesta ancora con certezza definitiva che vi sia una terza via di contagio”, prosegue De Gennaro. “Tuttavia, occorre che si tenga conto nella cosiddetta Fase 2 della necessità di mantenere basse le emissioni di particolato per non rischiare di favorire la potenziale diffusione del virus”. A tal proposito, l’epidemiologo Prisco Piscitelli spiega: “Ad oggi le osservazioni epidemiologiche disponibili per Italia, Cina e Stati Uniti mostrano come la progressione dell'epidemia Covid-19 sia più grave in quelle aree caratterizzate da livelli più elevati di particolato. Esposizioni croniche ad elevate concentrazioni di particolato atmosferico, come quelle che si registrano oramai da decenni nella Pianura Padana, hanno di per sé conseguenze negative sulla salute umana, ben rilevate e quantificate dall’Agenzia Europea per l’Ambiente, rappresentando anche un fattore predisponente a una maggiore suscettibilità degli anziani fragili alle infezioni virali e alle complicanze cardio-polmonari. È arrivato il momento di affrontare il problema”. Conclude Alessandro Miani: “Siamo in stretto contatto con l'Organizzazione Mondiale della Sanità e con la Commissione Europea per condividere i risultati delle nostre analisi. Sono in corso ulteriori studi di conferma di queste prime prove sulla possibilità di considerare il PM come ‘carrier’ di nuclei contenenti goccioline virali, ricerche che dovranno spingersi fino a valutare la vitalità e soprattutto la virulenza del SARS-CoV-2 adesso al particolato. Intanto, la presenza del virus sulle polveri atmosferiche è una preziosa informazione in vista dell’imminente riapertura delle attività sociali, che conferma l’importanza di un utilizzo generalizzato delle mascherine da parte di tutta la popolazione. Se tutti indossiamo le mascherine, la distanza inter-personale di 2 metri è da considerarsi ragionevolmente protettiva permettendo così alle persone di riprendere una vita sociale”.

Speranza


Il fotografo naturalista Tobias Baumgaertner ha catturato il momento in cui due pinguini si tengono stretti mentre guardano lo skyline della città australiana di Melbourne. L'immagine è stata scattata nel 2019, ma è diventata virale quando Baumgaertner l'ha condivisa su Instagram, raccontando la storia dietro il suo scatto straordinario: i due animali si confortavano a vicenda per la perdita dei loro partner.

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