Dal paziente «zero» alle pagine di Facebook in cui oggi
i malati raccontano la loro convivenza con il virus
Gaetan Dougas, bello e gay, si ammalò di sarcoma di Kaposi nel 1981. Steward dell'Air Canada, volava spesso fra Nord America e West Africa e consumava, all'anno, 250 rapporti sessuali, senza mai pensare al preservativo. Per tutti è il Paziente zero dell'Aids. Non si sa quando ha incontrato il virus, ma si conosce la data della sua morte: il 30 marzo del 1984. Un pugno di anni di vita, dopo la diagnosi di quel raro tumore che colpisce i vasi sanguigni e può accompagnare l'infezione da Hiv quando smette di essere sieropositività e diventa vero Aids, la sindrome da immunodeficienza acquisita, la malattia che annienta il sistema immunitario e lascia indifesi contro germi e tumori.
Rosaria Iardino ha 45 anni e vive a Milano: da quando ne aveva 18 convive con l'Hiv. Molti la ricordano per il bacio sulla bocca a Ferdinando Aiuti, il ricercatore che ha capito, prima di altri nel nostro Paese, la portata devastante di questa epidemia: tutti e due volevano dimostrare, a chi rifiutava i bambini sieropositivi a scuola o gli adulti nel mondo del lavoro, che il virus non si prende così (ma attraverso sangue infetto o rapporti sessuali di vario tipo). Rosaria, la sindacalista dei pazienti, come l'hanno soprannominata (nel frattempo ha anche fondato un network delle persone sieropositive), è una sopravvissuta al virus, uno di quei fortunati che convivono con l'infezione grazie all'efficacia delle loro difese immunitarie e alle cure che oggi hanno trasformato un'infezione, mortale all'inizio, in una malattia cronica, come fosse un diabete. Quello di Rosaria non è l'unico esempio di vittoria sul virus: su Facebook (la pagina si chiama Positive survivors living with Hiv/Aids) ci sono le facce di sopravvissuti, come lei, che raccontano le loro esperienze.
La storia dell'Aids è fatta di tanti volti. Anonimi, la stragrande maggioranza: l'epidemia ha ucciso globalmente all'incirca 25 milioni di persone fino a oggi, moltissime in Africa (magari per malattie associate, come la tubercolosi), molte in Asia, troppe ancora oggi nei Paesi dell'Est europeo. E nemmeno si conoscono i nomi di quei primi cinque omosessuali di Los Angeles, colpiti da polmonite da Pneumocystis carinii (una polmonite particolarmente grave, provocata da un germe che di solito è abbastanza innocuo, ma che fa danni in persone debilitate dall'Hiv), descritti il 5 giugno del 1981, dal «Mmwr», il report settimanale dei Cdc (i Centers for Diseases Control di Atlanta): sono i cinque casi che hanno dato il via alla storia ufficiale dell'epidemia. Altri volti, invece, sono diventati familiari al mondo intero. Quelli dell'americano Robert Gallo e del francese Luc Montagnier, che si sono a lungo contesi la paternità della scoperta del virus dell'Aids e poi si sono messi d'accordo (del resto c'erano interessi commerciali in gioco, legati alla messa a punto di test diagnostici). Alla fine, però, il Nobel per la scoperta, nel 2008, è andato solo al francese (e alla sua collaboratrice Françoise Barré Sinoussi). O quello del cino-americano David Ho, meno noto degli altri due, ma che si è guadagnato la prima pagina del Time come uomo dell'anno 1996, per aver messo a punto la triplice terapia, il cocktail di farmaci che ha cambiato il destino dei malati.
Già con l'Azt, la prima molecola utilizzata per combattere il virus, la sopravvivenza dei pazienti si stava allungando, ma è con la triterapia prima e, successivamente, con le combinazioni dei farmaci che si sono resi disponibili, (compresi quelli utilizzati per arginare le complicanze infettive) che l'infezione ha preso la strada della cronicizzazione. Nel frattempo, però, molte vittime illustri hanno pagato il loro tributo a quel virus scappato dalle scimmie delle foreste equatoriali africane, per infettare l'uomo. Come? Si dice perché alcuni operai, che lavoravano a una ferrovia in Congo, ne sono venuti in contatto mangiando carni infette. Da lì, di contagio in contagio, il virus si è diffuso in tutto il mondo.Arthur Ash, un grandissimo tennista di colore, vincitore a Wimbledon nel 1975, è morto per una trasfusione infetta. Altre celebrità colpite dal virus: Rock Hudson, star di Hollywood e gay «mascherato» fino a quando non si ammalò; Freddie Mercury, il cantante dei Queen; lo scrittore italiano Dario Bellezza. E il piccolo Nkosi che famoso non era, ma lo è diventato dopo aver commosso il mondo, parlando dall'International Aids Conference di Durban, nel 2000, e testimoniando l'enormità dell'epidemia in quel continente.
Magic Johnson, fuoriclasse del basket americano dell’Nba, invece, ce l'ha fatta e, abbandonati i campi da gioco, si è impegnato nella lotta alla malattia. È il testimonial di come il virus si può controllare grazie alle terapie e, soprattutto, grazie alla prevenzione. A tutt'oggi, dopo anni di sperimentazioni, il vaccino non esiste, nonostante gli sforzi di tutti, compresi quelli della nostra ricercatrice dell'Istituto superiore di sanità Barbara Ensoli, e la prevenzione si fa evitando i comportamenti a rischio e sensibilizzando il pubblico grazie a campagne informative. A promuoverle anche personaggi del mondo dello spettacolo e del business: da Elisabeth Taylor, che è stata fra le prime celebrità a impegnarsi attivamente, a Richard Gere, che ha scelto di aiutare l'India, fino a Bill e Melinda Gates con la loro fondazione, considerata la più grande del mondo. Oggi, globalmente, 33 milioni di persone convivono con il l’Hiv, il numero più alto mai raggiunto dall'inizio dell'epidemia, ma nel frattempo i fondi per la lotta l'Aids si stanno riducendo. Ecco perché ci si aspetta che i 30 capi di Stato, attesi alle Nazioni Unite dall'8 al 10 giugno prossimo, offrano delle risposte. Anche i politici devono metterci la loro faccia. .
FONTE: http://www.corriere.it/salute/11_giugno_05/aids-trenta-anni-bazzi_4606d474-8e04-11e0-b332-ace1587d6ad6.shtml
Nessun commento:
Posta un commento