All’inizio del secolo scorso, quando Otto Frederiksen provava e riprovava a piantare semi nella terra brinosa di Qassiarsuk, un piccolo villaggio nel sud della Groenlandia, gli abitanti lo guardavano come un povero pazzo. Oggi, tra le casette rosse, azzurre e verdi con il tetto spiovente dove vivono una settantina di persone, sono spuntati broccoli, carote e zucchine. «Ci stiamo avvicinando alle condizioni climatiche dell'Europa settentrionale», ripete il figlio ultraottantenne Erik Rode Frederiksen, chiamato così in onore del leggendario Erik il Rosso, il Cristoforo Colombo vichingo che nel 986 approdò tra questi fiordi ancora vergini e li trovò verdissimi. I suoi discendenti scomparvero 300 anni dopo, vittime della glaciazione che avrebbe inghiottito l'84 per cento della Groenlandia ibernandolo fino ai nostri giorni. Il cerchio della storia si chiude: il surriscaldamento del pianeta, che avrà effetti catastrofici sull’umanità, regala ora agli uomini dei ghiacci il beneficio mai conosciuto della primavera.
«Alterazioni relativamente ridotte della temperatura possono in una prima fase risultare positive, soprattutto nelle zone estremamente fredde», spiega Bob Ward del Grantham Research Insitute on Climate Change della London School of Economics. Ieri mattina due navi commerciali del gruppo tedesco Beluga hanno annunciato d’aver attraversato con successo il mare Artico, il leggendario passaggio a Nord-ovest vagheggiato dagli inglesi sin da 1553, quando il condottiero di Sua Maestà Richard Chancellor si arenò tra gli iceberg e fu costretto a marciare a piedi nella tundra fino alla corte moscovita di Ivan il Terribile. Con la distesa di ghiaccio che fino a una decina d’anni fa bloccava la strada ai naviganti, l’impresa sarebbe stata impossibile.
«I cambiamenti climatici non sono un male per tutti, ci sono sempre vincitori e perdenti«, osserva Alessandro Farruggia coautore con Vincenzo Ferrara del volume «Clima: istruzioni per l’uso» (Edizioni ambiente). Nella cittadina di Ilulissat, 4500 persone e 5000 cani da slitta all’ombra del Srmeq Kujalleq, il più grande ghiacciaio del mondo al di fuori dell’Antartide, sulla costa nordoccidentale della Groenlandia, i fiordi sgombri come mai prima d’ora si sono riempiti di turisti. «Li portiamo in barca con noi tra gli iceberg«, racconta il pescatore Karl Thumassen. Nel porto, incorniciato dalle abitazioni rosse e dal cimitero bianco affacciato sulla baia di Disko, ristorantini con i tavoli di legno servono prosciutto di foca e carne di tricheco. E pazienza se non durerà in eterno. Anche gli Inca, concordano i paleo-ecologi, non si sarebbero imposti come la più grandiosa civiltà precolombiana senza l’impennata della temperatura che nel 1100 alterò l’ecosistema andino per oltre 400 anni. Dopo secoli d’astinenza i groenlandesi si godono il loro posto al sole.
«I raccolti sono migliori, è vero, il sud del paese sembra rinato», dice al telefono il trentaseienne Mininnguaq Kleist, ex responsabile dell’ufficio d’autogoverno della Groenlandia annullatosi quest’estate dopo l’approvazione danese del referendum per l’autonomia. Oggi Mininnguaq, che gli amici chiamano Minik, si occupa di rapporti con l’Europa al dipartimento affari esteri, a pochi passi dal suo appartamento nel cuore trendy della capitale Nuuk. Anche qui, dove vivono un quarto dei 57 mila abitanti del paese, la terra ha cominciato a fruttare. «Coltiviamo patate, roba che 15 anni fa sarebbe sembrata una barzelletta», ammette lo scienziato Minik Rosign. Certo, parecchi sono tagliati fuori: difficile immaginare la primavera del remoto paesino di Kullorsuaq, 400 anime al centro di un’isoletta nel profondo nord, dove i medici fanno visita una volta al mese. «Il surriscaldamento penalizza l’entroterra dove le lastre di ghiaccio si assottigliano e i cacciatori non riesco a guidare le slitte come un tempo», continua Mininnguaq. Le aree polari sono coperte da permafrost, terreno ghiacciato con dentro carbonio, muschio, torba, metano, che, liquefatto, è impraticabile. Quelli che possono hanno cominciato a spostarsi nei villaggi di Narsarsuaq, Qaqortoq, Kangersuatsiaq, per dedicarsi alla pastorizia e offrire bed&breakfast ai turisti meno sofisticati.
La Groenlandia ha i suoi tempi. Il ghiaccio che sfrangia i fiordi si scioglie meno rapidamente rispetto al mare artico, dove ha uno spessore massimo di 15 metri. Secondo l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il comitato scientifico delle Nazioni Unite incaricato dell’effetto serra, ci vorrebbero diverse centinaia di anni, forse un migliaio, prima di scongelarla completamente. Magari non succederà mai. Intanto però il presente è strategico, anche perché anticipa l’accesso ai ricchissimi giacimenti di gas e petrolio finora assolutamente blindati.
«Stiamo lavorando molto bene, l’estrazione dello zinco è stata notevolmente agevolata dall’innalzamento della temperatura», ci spiega Nick Hall, amministratore delegato della Angus&Ross, la società britannica proprietaria della miniera di zinco Black Angel, una tra le più promettenti risorse nazionali insieme all’alluminio e al greggio della costa orientale su cui sventolano già le insegne della Chevron, della Exxon, della canadese Husky Energy. Scoperta negli anni trenta e scavata tra il 1973 e il 1990, la Black Angel, uno dei maggiori giacimenti del pianeta, è stata finora protetta da una parete invalicabile di ghiaccio. La Angus&Ross l’ha acquistata nel 2003, mentre i prezzi dello zinco schizzavano alle stelle, e nel 2006 due geologi hanno trovato un varco attraverso il South Lakes Glacier che si ritirava a vista d'occhio. Se il termometro cresce di un grado vicino all’equatore, qui ne guadagna almeno quattro. «Tutto merito del cambiamento climatico - concede Nick Hall -, ma in fondo è un ritorno all’epoca verde dei vichinghi». Nel villaggio di pescatori a ridosso della miniera, uomini e donne macellano le foche sulle rocce, ignari del passato lussureggiante dell’isola e incerti sul futuro.
«L’effetto peggiore dello scioglimento dei ghiacci della Groenlandia è sulla corrente del Golfo», continua Alessandro Farruggia. Il vecchio continente, distante tremila chilometri, farebbe bene a ricordarsene: «Il meccanismo funziona come un’orologio, quando la corrente calda arriva all’altezza dell’Europa del nord si raffredda, il sale precipita, la corrente fredda e salata torna indietro. Se s’immettesse un flusso rilevante d’acqua fredda e dolce, il ciclo si arresterebbe compromettendo l’equilibrio climatico». È già successo a dire il vero, milioni e milioni d’anni fa. Allora, in piena epoca glaciale, c’era un grande lago tra il Canada e il Nord Dakota. Quando la lingua di ghiaccio che lo conteneva si sciolse e una valanga d’acqua fredda e dolce confluì nell’Atlantico la corrente del golfo s’inceppò per 1100 anni. Come stavolta, ci furono vincitori e perdenti. Sostiene l’archeologo americano Brian Fagan che quel raffreddamento costrinse le genti del Mediterraneo a coltivare la terra, non potendo più raccoglierne i frutti, e gettò le fondamenta dello sviluppo mesopotamico. Corsi e ricorsi. Stavolta potrebbe essere l’umanità intera a soccombere. Intanto sulle tavole tra i fiordi della Groenlandia, si serve cotoletta di tricheco e insalata indigena. Alla salute di Erik il Rosso.
FONTE:lastampa.it
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