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martedì 22 marzo 2011

acqua : IN AFRICA SUBSAHARIANA DIRITTO NEGATO PER 4 PERSONE SU 10

''Nell'Africa Subsahariana l'accesso all'acqua pulita e' un diritto umano fondamentale tuttora negato a piu' del 40% della popolazione''. Lo ricorda l'Amref, in vista della Giornata mondiale dell'acqua di oggi 22 marzo.

''Senz'acqua non c'e' salute ne' sviluppo - spiega Tommy Simmons, direttore generale di Amref Italia - I danni all'agricoltura sono incalcolabili, il bestiame muore, le lezioni a scuola non si possono svolgere regolarmente e saltano anche gli equilibri familiari, perche' le donne sono costrette ad assentarsi per ore alla ricerca di acqua, lasciando incustoditi i figli''.

La mancanza di acqua pulita e di servizi igienici adeguati, spiega l'Amref, costa ogni anno all'Africa Subsahariana il 5% del suo Pil ed e' legato, direttamente o indirettamente, all'80% delle malattie. Nella regione piu' della meta' dei posti letto ospedalieri sono occupati da pazienti affetti da malattie diarroiche, causate dall'utilizzo di acqua contaminata e dall'assenza di servizi igienici, con conseguenze fatali soprattutto per i bambini.

Quelli con meno di cinque anni nati in un periodo di siccita' hanno tra il 36 e il 50% di probabilita' di essere malnutriti, mentre l'accesso ad acqua pulita riduce i tassi di mortalita' infantile di oltre il 20%.

''Portare acqua in Africa - precisa Mario Raffaelli, presidente di Amref Italia - significa allargare la base della partecipazione e puntare sulla formazione di comitati di gestione e di tecnici all'interno delle stesse comunita' beneficiarie dei progetti. Solo cosi' i pozzi sono vissuti come beni di cui la comunita' e' responsabile e durano nel tempo. Il successo degli interventi, pero', passa anche attraverso il rafforzamento del ruolo delle donne nei processi decisionali che riguardano lo sviluppo della comunita'. Sono le donne africane, infatti, a pagare il prezzo piu' alto della mancanza di acqua ed e' soltanto attraverso il potenziamento del loro ruolo sociale che il diritto all'acqua puo' diventare qualcosa di piu' di una dichiarazione di intenti''.

Amref Italia, in particolare, ha attivato dei progetti idrici in Kenya e Tanzania. In Kenya, un Paese afflitto da carenza idrica cronica, l'intervento consiste nella costruzione di pozzi nei distretti costieri di Malindi e Kilifi e in quelli di Kajiado, Kitui e Makueni, terre aride o semi-aride le cui fonti d'acqua principali - fiumi, dighe e pozzi aperti - sono contaminate, quindi inutilizzabili. Dal 1998 a oggi AMREF ha costruito nel Paese piu' di 2.600 pozzi e 85 sistemi di raccolta dell'acqua piovana, di cui hanno beneficiato circa 1,5 milioni di persone.

venerdì 11 marzo 2011

acqua : IN AFRICA SUBSAHARIANA DIRITTO NEGATO PER 4 PERSONE SU 10

Nell'Africa Subsahariana l'accesso all'acqua pulita e' un diritto umano fondamentale tuttora negato a piu' del 40% della popolazione''. Lo ricorda l'Amref, in vista della Giornata mondiale dell'acqua del 22 marzo.

''Senz'acqua non c'e' salute ne' sviluppo - spiega Tommy Simmons, direttore generale di Amref Italia - I danni all'agricoltura sono incalcolabili, il bestiame muore, le lezioni a scuola non si possono svolgere regolarmente e saltano anche gli equilibri familiari, perche' le donne sono costrette ad assentarsi per ore alla ricerca di acqua, lasciando incustoditi i figli''.

La mancanza di acqua pulita e di servizi igienici adeguati, spiega l'Amref, costa ogni anno all'Africa Subsahariana il 5% del suo Pil ed e' legato, direttamente o indirettamente, all'80% delle malattie. Nella regione piu' della meta' dei posti letto ospedalieri sono occupati da pazienti affetti da malattie diarroiche, causate dall'utilizzo di acqua contaminata e dall'assenza di servizi igienici, con conseguenze fatali soprattutto per i bambini.

Quelli con meno di cinque anni nati in un periodo di siccita' hanno tra il 36 e il 50% di probabilita' di essere malnutriti, mentre l'accesso ad acqua pulita riduce i tassi di mortalita' infantile di oltre il 20%.

''Portare acqua in Africa - precisa Mario Raffaelli, presidente di Amref Italia - significa allargare la base della partecipazione e puntare sulla formazione di comitati di gestione e di tecnici all'interno delle stesse comunita' beneficiarie dei progetti. Solo cosi' i pozzi sono vissuti come beni di cui la comunita' e' responsabile e durano nel tempo. Il successo degli interventi, pero', passa anche attraverso il rafforzamento del ruolo delle donne nei processi decisionali che riguardano lo sviluppo della comunita'. Sono le donne africane, infatti, a pagare il prezzo piu' alto della mancanza di acqua ed e' soltanto attraverso il potenziamento del loro ruolo sociale che il diritto all'acqua puo' diventare qualcosa di piu' di una dichiarazione di intenti''.

Amref Italia, in particolare, ha attivato dei progetti idrici in Kenya e Tanzania. In Kenya, un Paese afflitto da carenza idrica cronica, l'intervento consiste nella costruzione di pozzi nei distretti costieri di Malindi e Kilifi e in quelli di Kajiado, Kitui e Makueni, terre aride o semi-aride le cui fonti d'acqua principali - fiumi, dighe e pozzi aperti - sono contaminate, quindi inutilizzabili. Dal 1998 a oggi AMREF ha costruito nel Paese piu' di 2.600 pozzi e 85 sistemi di raccolta dell'acqua piovana, di cui hanno beneficiato circa 1,5 milioni di persone.

sabato 31 luglio 2010

Acqua : è un diritto fondamentale. Una risoluzione ONU che non farà piacere alle aziende


L’assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato che l’accesso all’acqua potabile è un “diritto fondamentale, essenziale per il pieno esercizio del diritto alla vita e tutti i diritti umani”

Non so se questo sarà un argine efficace contro la privatizzazione dell’acqua decisa dal Governo italiano.

Però credo che la decisione dell’Onu non farà piacere alle aziende che consumano moltissima acqua, tipo Coca Cola e tante altre. Avevano addirittura messo per iscritto il loro scarsissimo gradimento alla prospettiva che l’accesso all’acqua fosse considerato un diritto umano.

Il quadro generale della situazione è dato dal “picco dell’acqua” dichiarato dal prestigioso Pacific Institute qualche tempo fa.

Significa che l’umanità già sfrutta il 50% dell’acqua dolce disponibile. E se l’altro 50% – quello ancora da sfruttare – sembra tanto, attenzione: è di difficile accesso (l’acqua “facile” l’abbiamo già usata) e la popolazione mondiale è in aumento,

Ancora una cosa va sottolineata. Le acque dolci superficiali sono in gran parte inquinate. L’acqua potabile di solito viene estratta dal sottosuolo. E’ acqua di falda, che ha impiegato secoli o millenni per accumularsi, e che viene consumata ad una velocità molto maggiore rispetto a quella necessaria per rigenerarsi.

Per questo aziende come da Coca-Cola, Nestle (acqua in bottiglia), SAB Miller (birra), Syngenta (agroindustria) e World Bank hanno commissionato qualche mese fa alla società di consulenza manageriale McKinsey & Co un rapporto sulla situazione idrica planetaria.

“Charting our water future” – questo il titolo del rapporto – sostiene che nel 2030 probabilmente la domanda globale d’acqua supererà del 40% la disponibilità effettiva, e propone di andare oltre il facile rimedio (così lo chiamano) di considerare l’accesso all’acqua un diritto umano: se l’acqua sarà pagata per quel che vale, non andrà più sprecata.

Invece la risoluzione votata mercoledì dall’assemblea delle Nazioni Unite stabilisce che l’accesso all’acqua potabile per bere e per scopi igienici è un fondamentale diritto umano.

Un diritto di cui ora non godono 884 milioni di persone, mentre secondo stime Onu 2,6 miliardi di esseri umani non hanno i servizi igienici di base.

Il comunicato stampa dell’Onu l’accesso all’acqua potabile è un diritto umano

fonte: http://www.blogeko.it

martedì 11 agosto 2009

Aborigeni: vogliono lo sviluppo industriale


Diritti contro diritti. Difesa dell’ambiente contro sviluppo. Ecologisti contro aborigeni. Co­me l’India e la Cina che resistono ai tagli delle emissioni inquinan­ti in nome della crescita econo­mica, così a Cape York, penisola ancora incontaminata nel nord dell’Australia, le popolazioni in­digene dicono «no» alle riserve protette per tutelare la loro emancipazione.

Nei 14 milioni di ettari di fore­ste, savane e mangrovie nello sta­to del Queensland, una legge del 2005 — il Wild Rivers Act — con­sente di limitare ogni attività in­dustriale e agricola in prossimità di specifici corsi d’acqua. Solo tre, fino all’aprile di quest’anno. Ma adesso gli ambientalisti del­l’organizzazione australiana «Wil­derness Society» vogliono tra­sformare in zone protette i baci­ni di altri dieci fiumi. «Se questo avverrà, lo sviluppo sarà impedi­to nell’80% delle terre» protesta­no gli aborigeni di Cape York, una comunità di circa 8 mila per­sone, la maggioranza della popo­lazione. Sotto attacco anche il go­verno laburista del Queensland, accusato di sostenere il piano ecologista per compiacere i Verdi australiani. «Rispettando alcune condizioni, le attività come l’ac­quacoltura e l’allevamento potranno continuare» ha cercato di spegnere le polemiche il ministro dell’Ambiente.

Senza risultati: solo pochi giorni fa gli aborigeni han­no interrotto un ga­là degli ecologisti a suon di picchetti e travestimenti da koa­la. Il leader della prote­sta è l’avvocato Noel Pe­arson, impegnato fin da­gli anni ’90 in difesa dei nati­vi. «Con dieci fiumi protetti, scompariranno anche le coltiva­zioni necessarie al sostentamen­to — spiega —. Vogliono condan­narci ad aiuti sociali perpetui».

Nonostante le scuse ufficiali del premier laburista Kevin Rudd e le sue iniziative per ridur­re le discriminazioni, gli aborige­ni — il 2% della popolazione, ri­conosciuti cittadini australiani nel 1967 — vivono in condizioni di forte svantaggio rispetto al re­sto della popolazione. Secondo un rapporto diffuso due settima­ne fa dal Consiglio dei governi australiani, hanno una probabili­tà 13 volte maggiore di finire in prigione e 7 volte più alta che i loro bambini subiscano abusi. L’aspettativa di vita, inoltre, è di 17 anni inferiore rispetto ai bian­chi.

Ammette questa condizione di «emarginazione» anche Ugo Fabietti, professore di Antropolo­gia culturale alla Bicocca di Mila­no.

«Spesso non si tiene conto delle aspirazioni a nuovi stan­dard di vita delle popolazioni in­digene, ispirate dagli stessi mo­delli di tipo capitalistico degli ex colonizzatori» spiega il docente. Al punto di imitarne anche lo sfruttamento della natura: «È un paradosso della modernità — ag­giunge —. Gli aborigeni finisco­no per lottare contro gli ambien­­talisti, tra i gruppi più attivi, da­gli anni ’70, nel sostenerne la cau­sa agli occhi del mondo».

martedì 28 luglio 2009

PIANETA: USA E CINA COLLABORINO PER UN FUTURO SOSTENIBILE


Il presidente Usa: «Serve una risposta energetica globale. Rapporto con Pechino determinante nel 21/mo secolo»

WASHINGTON - La relazione tra Stati Uniti e Cina darà forma al 21/mo secolo. Barack Obama apre a Washington il vertice sul dialogo strategico ed economico con Pechino ribadendo l'importanza delle relazioni tra i due Paesi. Fra le questioni che necessitano di una forte collaborazione, afferma il presidente degli Stati Uniti, c'è il tema climatico ed energetico: il leader Usa rivolge per questo un appello a cooperare per una risposta globale per un futuro energetico «pulito, sicuro e prospero».

NUCLEARE - Obama sostiene che Washington e Pechino hanno interessi comuni nell'ambito di una ripresa economica sostenibile. «L'attuale crisi - dice Obama - ha chiarito che le scelte che facciamo all'interno dei nostri confini si riflettono per tutta l'economia globale e questo è vero non solo per New York e Seattle, ma anche per Shanghai e Shenzhen». «Per questo - aggiunge - dobbiamo impegnarci in un forte coordinamento bilaterale e multilaterale».

NUCLEARE E DIRITTI UMANI - Il presidente americano chiede inoltre alla Cina unità contro il nucleare in Nord Corea e in Iran. E rivolge alle autorità cinesi anche un invito a trovare un «terreno comune» sul tema del «rispetto della dignità di ogni essere umano». Secondo il leader Usa, «la religione e la cultura di tutti i popoli devono essere rispettate e protette».

venerdì 19 giugno 2009

FAME NEL MONDO: oltre un miliardo di persone nel mondo soffre la fame


Oltre un miliardo di persone sottonutrite. Secondo le nuove stime pubblicate dalla Fao, la fame nel mondo raggiungerà un livello storico nel 2009 con 1,02 miliardi di persone in stato di sottonutrizione.

Un dato questo che non è la conseguenza di raccolti non soddisfacenti ma, piuttosto, della crisi economica mondiale che ha ridotto i redditi e aumentato la disoccupazione. Fattori che hanno ulteriormente ridotto le possibilità di accesso al cibo per i poveri, afferma l'agenzia delle Nazioni Unite.

"La pericolosa combinazione della recessione economica mondiale e dei persistenti alti prezzi dei beni alimentari in molti paesi ha portato circa 100 milioni di persone in più rispetto all'anno scorso oltre la soglia della denutrizione e della povertà croniche - ha detto il direttore generale della Fao Jacques Diouf - Questa silenziosa crisi alimentare, che colpisce un sesto dell'intera popolazione mondiale, costituisce un serio rischio per la pace e la sicurezza nel mondo. Abbiamo urgentemente bisogno di creare un largo consenso riguardo al totale e rapido sradicamento della fame nel mondo, ed intraprendere le azioni necessarie ad ottenerlo. L'attuale situazione dell'insicurezza alimentare nel mondo non ci può lasciare indifferenti".
FONTE:adnkronos.com

RIFUGIATI: 42 MiLioNi IN FUGA PER GUERRE O CARESTIE. DOMANI GIORNATA ONU


Si celebra domani in tutto il mondo la Giornata del Rifugiato, indetta dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). La ricorrenza coincide con un momento particolarmente delicato per le condizioni di milioni di profughi, sfollati e rifugiati in tutto il mondo, e con un incremento del numero di persone coinvolte dopo alcuni anni di relativa stabilita'. E' quanto emerge dal rapporto ''Global trends'' diffuso per l'occasione dall'Alto Commissariato ,secondo il quale sono 42 milioni, le persone costrette alla fuga da guerre e persecuzioni alla fine del 2008. Questa cifra e' dovuta ad un brusco rallentamento dei rimpatri e ad una maggior durata dei conflitti, risultante in forme di esilio protratto. Il numero totale comprende 16 milioni di rifugiati e richiedenti asilo e 26 milioni di sfollati all'interno del proprio paese.

Secondo il rapporto dell'UNHCR l'80% dei rifugiati del mondo si trova nei paesi in via di sviluppo, cosi' come la stragrande maggioranza degli sfollati - una popolazione nei confronti della quale cresce l'impegno dell'UNHCR. Molte persone sono in esilio da anni senza la prospettiva di una soluzione.

''Nel 2009 abbiamo gia' assistito a un consistente movimento forzato di popolazioni, principalmente in Pakistan, Sri Lanka e Somalia,'' ha detto l'Alto Commissario Anto'nio Guterres. ''Se alcune forme di fuga possono avere breve durata, altre possono durare anni e perfino decenni in attesa di una soluzione. Sono diverse le situazioni di popolazioni sradicate da ormai molto tempo: in Colombia, Iraq, Repubblica Democratica del Congo e Somalia. Ciascuno di questi conflitti ha inoltre generato rifugiati che hanno oltrepassato le frontiere''.

Almeno 5,7 milioni di rifugiati vivono in un vero e proprio limbo. Si tratta di 29 differenti gruppi composti da oltre 25 mila rifugiati ciascuno che sono in esilio da piu' di cinque anni in 22 paesi senza che vi sia ancora per loro alcuna prospettiva per una soluzione immediata.

Sono circa 2 milioni i rifugiati e gli sfollati che sono potuti tornare a casa nel 2008, un numero inferiore rispetto all'anno precedente. Il ritorno a casa dei rifugiati (604 mila rimpatriati) e' calato del 17%, mentre per gli sfollati (1,4 milioni) il calo e' stato del 34%. Il rimpatrio, tradizionalmente considerata la soluzione durevole piu' diffusa per i rifugiati, ha raggiunto il secondo livello piu' basso negli ultimi 15 anni. Questo declino riflette in parte il deterioramento delle condizioni di sicurezza principalmente in Afghanistan e Sudan.

martedì 16 giugno 2009

INDIOS VINCONO LA BATTAGLIA, GOVERNO RITIRA LEGGI CONTESTATE


Gli indios della selva amazzonica peruviana sembrano aver vinto la loro battaglia. Al termine di un incontro con gli ''Apus'', rappresentanti di diverse tribu', nella selva centrale della regione di Junin, il primo ministro Yehude Simon si e' impegnato a presentare oggi stesso al parlamento la proposta di abrogazione dei decreti sullo sfruttamento delle risorse idriche e naturali, contestati dai popoli nativi. A Bagua, citta' dove dieci giorni di duri scontro fra polizia ed indios avevano causato 34 morti, e' stato revocato lo stato di emergenza. Ma la resistenza degli indios non sembra essersi placata: lungo le strade della zona ci sono ancora molti blocchi stradali e per il prossimo 24 giugno resta confermata una manifestazione nazionale contro il governo di Lima.

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DIRITTI UMANI: ORGANIZZAZIONI DENUNCIANO VIOLAZIONI IN AMAZZONIA

mercoledì 10 giugno 2009

DIRITTI UMANI: ORGANIZZAZIONI DENUNCIANO VIOLAZIONI IN AMAZZONIA


Il governo deve fare chiarezza: lo hanno chiesto i rappresentanti di cinque organizzazioni locali a difesa dei diritti umani, sollecitando l'esecutivo a indagare sulle denunce di violazioni e abusi da parte della polizia contro le popolazioni indigene amazzoniche dopo gli scontri dello scorso fine-settimana lungo la strada Fernando Belaunde Terry che unisce i centri di Tarapoto e Yurimaguas.

Secondo cifre ufficiali - riferisce l'agenzia missionaria Misna - sarebbero 24 gli agenti rimasti uccisi e nove i civili; testimonianze locali, non ancora verificabili, parlano invece di decine di morti tra i nativi che da giorni occupavano la strada per protesta contro le politiche di sfruttamento delle risorse naturali e accusano la polizia di aver occultato i loro cadaveri gettandoli in un fiume.
''Ci sono indizi da verificare, dobbiamo sapere la verita''', ha detto Ernesto de la Jara dell'Instituto de Defensa Legal (Idl). La Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh) ha condannato ''energicamente'' le violenze sottolineando che ''la criminalizzazione della legittima mobilitazione e protesta sociale, sia attraverso la repressione diretta dei manifestanti o attraverso inchieste o processi penali, e' incompatibile con una societa' democratica''; un richiamo che Lima ha seccamente respinto.

La ''Defensori'a del Pueblo', l'ufficio per i diritti civili, trasformatosi in primo mediatore tra indigeni e governo - scrive ancora Misna - ha per il momento smentito l'esistenza di fosse comuni segnalate nella zona di Bagua, dove si sono concentrati gli scontri; a Bagua, presidiata dall'esercito, resta in vigore il coprifuoco dalle 18:00 alle 06:00, mentre i circa 1000 indigeni rifugiatisi presso le strutture della parrocchia di Bagua Grande stanno facendo ritorno ai loro villaggi, scortati da centinaia di soldati.

Il clima resta tuttavia teso e si teme il rischio di nuove violenze. Intanto l'ambasciata del Nicaragua a Lima ha riferito di aver accolto la richiesta di asilo politico rivolta da Alberto Pizango, presidente dell'Associazione interetnica della selva peruviana (Aidesep), accusato dalla magistratura di ''sedizione'' e ''ribellione''. L'Aidesep e' la sigla che riunisce oltre un migliaio di comunita' indigene amazzoniche protagoniste da due mesi della piu' imponente mobilitazione contro il governo del presidente Alan Garci'a a cui viene chiesta la deroga di un pacchetto di decreti approvati lo scorso dicembre nel piano di adeguamento della legislazione previsto dal Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti, ritenuti lesivi dei diritti dei popoli originari sulle loro terre..

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sabato 6 giugno 2009

Indios contro le esplorazioni petrolifere sulle loro terre amazzoniche.


Lima. Sale il bilancio degli scontri in corso nella zona peruviana della foresta amazzonica tra gli indios e le autorità di polizia. Al momento il totale è di 45 morti, 20 agenti e 25 manifestanti. Gli indios avevano preso in ostaggio almeno 50 persone, fra cui 38 poliziotti; un blitz tentato per liberarli ha portato alla morte di 9 ostaggi e alla liberazione di altri 22, mentre si ignora la sorte degli altri sette. Il bilancio effettivo degli scontri non può comunque essere verificato considerato che in zona, nella provincia di Utcubamba, non vi sono giornalisti indipendenti presenti. Nella zona è stato proclamato il coprifuoco. Gli indios protestano contro le esplorazioni petrolifere sulle loro terre amazzoniche.

Gli scontri sono avvenuti nella zona nota come Curva del Diablo nella provincia di Utcubamba. Il presidente del gruppo di protesta, Alberto Pizango, ha accusato il governo di «genocidio» per aver attaccato dei manifestanti pacifici. Secondo l’attivista, la polizia avrebbe aperto il fuoco e lanciato lacrimogeni contro una protesta non violenta. Il presdiente peruviano Garcia, che ha molto incoraggiato gli investimenti stranieri nel settore petrolifero in questa zona della giungla amazzonica, dal canto suo ha risposto a Pizango accusandolo di essere sceso sul piano «dell’azione criminale, assaltando posti di polizia, rubando armi e uccidendo agenti che stavano solo facendo il loro lavoro». Dall’aprile scorso, gli indios stanno effettuando una serie di blocchi a intermittenza contro strade, oleodotti, condotte idriche chiedendo al governo di rispettare i diritti delle popolazioni autoctone.

GIà AD APRILE 2009 La Rettet den Regenwald, una Ong tedesca, ha lanciato una campagna per proteggere i diritti e la vita di alcune delle tribù di indios "non contattate" che vivono nelle remote foreste nord-occidentali del Perù messe in pericolo dalla società petrolifera anglo-francese, Perenco, che ha avuto dal governo di Lima concessioni che le permetterebbero di invadere i territori ancestrali di questi indios che non hanno praticamente mai avuto contatti con l´uomo bianco e che non sanno di vivere sul più grande giacimento di petrolio scoperto in Perù negli ultimi trenta anni. «Le uncontacted tribù sono i più vulnerabili tra gli esseri umani sul pianeta – dice Rettet - I trattati internazionali garantiscono i loro diritti... ma gli interessi economici del governo peruviano e l´industria petrolifera sono molto più forti». La campagna di Rettet invita tutti a premere sul presidente della Perenco, Francois Perrodo, sul presidente del Perù, Alan Garcia, sul ministro dell´energia e delle miniere e sul presidente della Perupetro, Daniel Saba perché «I diritti delle tribù "non contattate" devono essere rispettati e qualsiasi attività petrolifera, di concessione o agricola sul loro territorio, deve essere proibita». Della vicenda si sta interessando anche "Survival" ed il suo direttore Stephen Corry, dice che «Questa è un´ulteriore prova del fatto che le "non contattate" tribù del Perù stanno diventando un problema sempre più globale. Il governo e le imprese come Perenco devono capire le norme e le regole: è assolutamente inaccettabile che i territori di questi indios possa essere invaso e distrutto, i loro diritti violati, e la loro vita messa in grave pericolo». Il progetto "blocco 67" si basa sulla costruzione di un oleodotto ed impianti da un miliardo e mezzo di dollari per trasportare il petrolio estratto da 14 pozzi dell´Amazzonia peruviana alla costa, gli unici dubbi vengono dalla Perupetro, la compagnia petrolifera di Stato, che sta valutando se investire subito nel progetto mentre il prezzo del petrolio è così basso e l´Opec chiede di tagliare la produzione. La giungla interessata dai progetti della Perenco è un´area nella quale vivono almeno due delle ultime tribù "non contattate" del pianeta e le richieste dell´impresa anglo-francese sono fortemente osteggiati dalla Asociación interétnica de desarrollo de la Selva Peruana (Aidesep) che chiedono alla Commissione Inter-Americana per diritti umani di mettere il veto sul progetto . Ma il clima non sembra dei migliori: il presidente "socialdemocratico", Alan Garcia, ha detto che le tribù "non contattate" sono un´invenzione degli ambientalisti contrari alle prospezioni petrolifere e che vogliono impedire al Perù di trasformarsi da importatore di petrolio in esportatore. Le riserve petrolifere scoperte sarebbero di 300 milioni di barili che potrebbero essere raggiunti dalle trivelle della Perenco già nel 2011 e sfruttati ad un ritmo di 100.000 barili al giorno, con un´invasione del territorio indio da parte di 1.500 operai che si porterebbero dietro un discreto indotto e molte malattie come il raffreddore e l´influenza che sterminerebbero i popoli indios. La vicenda si svolge nella zona frontaliera tra Perù ed Equador dove l´isolamento ha permesso a piccoli gruppi di indios di non entrare i contatto con la "civiltà", decidendo di vivere in modo tradizionale, anche grazie a trattati che garantiscono i loro diritti sui territori. Lo studio di impatto ambientale presentato da Perenco però nega completamente l´esistenza di queste tribù che sfuggono ad ogni contatto dopo aver visto gran parte di loro morire per le malattie portate dai "bianchi" o per i massacri perpetrati dai "coloni". E´ così che alla fine degli anni ´80 è scomparsa la metà dei Nahuas dell´Amazzonia peruviana. La Perenco richiama una legge peruviana che autorizza lo sfruttamento economico «delle terre appartenenti allo Stato ed alle comunità contadine ed indigene». L´atteggiamento del Perù è ben diverso da quello del vicino Equador che nel 1999 ha dichiarato l´area di frontiera "zona intangibile" per proteggere gli indigeni e vieta qualsiasi attività estrattiva nella selva dove vivono le tribù "non contattate". Nella nuova Costituzione "ambientalista" dell´Equador i diritti inalienabili degli indios sono uno degli elementi centrali. L´Equador ha anche avviato un´iniziativa unica al mondo che vieta lo sfruttamento petrolifero nella foresta tropicale, nel parco nazionale Yasuní e nell´area Ishpingo-Tambococha- Tiputini, in cambio di una compensazione finanziaria internazionale.

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